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Aldo Busi
vincitore della XXXII edizione del Premio Letterario Giovanni Boccaccio per l'opera:
 
"Giovanni Boccaccio"
"IL DECAMERONE"



 
La motivazione della Giuria
"Ad Aldo Busi, scrittore di sicura originalità e indipendenza di stile, uno stile segnato dal gusto materico della parola, dalla fantasia, dal colore e dalle variazioni di temi e di toni, dalla capacità di passare dal registro ironico a quello più appassionato, caratteri questi che connotano il suobusilibro penultimo lavoro 'El especialista de Barcelona,  va il premio Boccaccio nella ricorrenza del settimo centenario della nascita del narratore certaldese, pietra angolare della letteratura in prosa italiana e potremmo dire europea. Nel segno di questa considerazione e io immagino nel solco del piacere della scrittura che da Boccaccio viene a chi si avventuri per la via della narrativa, Busi ha ripreso le pagine del Decamerone, convinto che un'opera di questo peso e di questa leggerezza non conosca limitazioni di linguaggio e anacronismi. E quindi, facendo capitale della finzione di oralità su cui e' stata orchestrata la partitura delle cento novelle, ci ha riproposto in lingua del XX, XXI secolo, quello stesso capolavoro. Quello stesso, appunto, lo ribadisce Busi nell'introduzione all'opera, non quindi un suo Decamerone o una variazione sul tema. Ritroviamo quel Boccaccio e però sentiamo anche la voce di Busi che racconta, un timbro peculiare che non snatura la melodia, come ascoltare un brano di Verdi da Ruggero Raimondi o da Samuel Ramey. C'è divertimento e c'è emozione nella prosa di Boccaccio e li ritroviamo nella prosa governata di Busi, che ha contenuto la sua energia creativa nei confini della non minore energia di Boccaccio. Ce lo propone divertito, ironico, malinconico, profondo e lieve, un segno di continuità e un atto di fiducia nell'arte della prosa".
 
 

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Catherine Dunne
vincitrice del Premio Boccaccio sezione letteratura straniera per l'opera:
 
"Quel che ora sappiamo"
Traduzione di Adua Arduini
 




La motivazione della giuria:

Quel che ora sappiamo è un romanzo illuminato e tragico, avvolgente e complesso, profondamente sincero. Catherine Dunne parte da un’immagine straziante che penso sia quella che l’abbia ispirata e insieme abbia strappato il velo alla realtà: c’è un danno, una malattiadunnelibro odiosa, e segreta, un senso di vergogna che abita nelle pieghe del nostro apparente e fragile star bene. Scoprire la verità, per quanto dolorosa, è l’unico modo per dare un senso e prospettive dignitose a una vita che sembra aver perso ogni colore. Perché «non c’è nulla di più potente della conoscenza», anche quando rischia di annientarti.

La scrittura di Catherine Dunne, col suo stile asciutto e insieme potente, capace di emozionarti con un aggettivo, uno squarcio, un momento di sospensione, è vera letteratura. Trasfigura la realtà e conduce il lettore in territori ignoti, che però ci riguardano. E di colpo, varchiamo quella soglia e riconosciamo quei luoghi, erano davanti ai nostri occhi e non sapevamo vederli: la crudeltà dei ragazzi, così dolorosa per i genitori se tocca i propri figli; l’inconsapevolezza materna, quando fa troppo male riconoscere la verità; la sofferenza che germoglia nelle abitudini familiari.

Ella e Patrick, i genitori di Daniel, precipitano in una voragine di dubbi e sensi di colpa. Comincia così una ricerca ostinata di tracce e responsabilità, fatta anche di brucianti attriti familiari, che illumina a poco a poco di una luce diversa volti, situazioni, dettagli appena intravisti e poi rimossi, ma restituisce al tempo stesso la certezza della gioia condivisa, dell’amore scambiato. E il finale, contrariamente a ogni aspettativa, è una festa, un commiato colmo di speranza da un gruppo di personaggi disegnati con una sapienza e una delicatezza sorprendenti, più veri del vero, eppure – anzi, forse proprio per questo – straordinari.

Catherine Dunne scrive e vive, si dibatte, soffre, gioisce, ma intanto vive. Anzi fa di più. Dopo aver esplorato la tragedia, con la sua scrittura ci rimette al mondo più temerari.

franco
 
Massimo Franco
vincitore del Premio “Boccaccio-Indro Montanelli” con l'opera:
 
"La crisi dell'impero Vaticano"
 




La motivazione della giuria:

Massimo Franco firma, quotidianamente, la” nota” del Corriere della Sera. Fa cioè il “punto”, commentandolo, della situazione politica. Al di là dell’importante rubrica, che fissa la sua identità professionale, civica e culturale, scrive editoriali di particolare rilievo e interventi di speciale francolibrodelicatezza, come quelli recentemente dedicati al Vaticano, da cui ha tratto libri di grande rigore documentale.

Se a ciò si aggiungono sensibilità civile, qualità di scrittura e assenza di qualsivoglia accento ideologico, abbiamo il ritratto di un giornalista tra i più rispettosi di quel canone civile che fa coincidere pensiero e lealtà, dialettica e chiarezza, informazione ed etica. A una precisione accurata, sobria e severa Massimo Franco assegna anche la funzione sociale di un giornalismo oggi variamente insidiato da una accresciuta domanda di corrività, e persino da sudditanze di ordine politico ed economico che inducono a qualcosa di ancor più condiscendente, e non di rado più complice.

E’ insomma protagonista del giornalismo nel quale il Boccaccio - in una particolare sezione del premio – seguita a riconoscersi; e dove Franco osserva una regola morale, all’occorrenza anche tagliente, appresa dal dottor Albert Schweitzer, Premio Nobel per la Pace. Eccone, con la loro preziosa e pericolante normalità, le parole: “Fino a quando non diremo cose che a qualcuno dispiaceranno, non diremo mai, per intero, la verità”: