Quel che ora sappiamo è un romanzo illuminato e tragico, avvolgente e complesso, profondamente sincero. Catherine Dunne parte da un’immagine straziante che penso sia quella che l’abbia ispirata e insieme abbia strappato il velo alla realtà: c’è un danno, una malattia odiosa, e segreta, un senso di vergogna che abita nelle pieghe del nostro apparente e fragile star bene. Scoprire la verità, per quanto dolorosa, è l’unico modo per dare un senso e prospettive dignitose a una vita che sembra aver perso ogni colore. Perché «non c’è nulla di più potente della conoscenza», anche quando rischia di annientarti.
La scrittura di Catherine Dunne, col suo stile asciutto e insieme potente, capace di emozionarti con un aggettivo, uno squarcio, un momento di sospensione, è vera letteratura. Trasfigura la realtà e conduce il lettore in territori ignoti, che però ci riguardano. E di colpo, varchiamo quella soglia e riconosciamo quei luoghi, erano davanti ai nostri occhi e non sapevamo vederli: la crudeltà dei ragazzi, così dolorosa per i genitori se tocca i propri figli; l’inconsapevolezza materna, quando fa troppo male riconoscere la verità; la sofferenza che germoglia nelle abitudini familiari.
Ella e Patrick, i genitori di Daniel, precipitano in una voragine di dubbi e sensi di colpa. Comincia così una ricerca ostinata di tracce e responsabilità, fatta anche di brucianti attriti familiari, che illumina a poco a poco di una luce diversa volti, situazioni, dettagli appena intravisti e poi rimossi, ma restituisce al tempo stesso la certezza della gioia condivisa, dell’amore scambiato. E il finale, contrariamente a ogni aspettativa, è una festa, un commiato colmo di speranza da un gruppo di personaggi disegnati con una sapienza e una delicatezza sorprendenti, più veri del vero, eppure – anzi, forse proprio per questo – straordinari.
Catherine Dunne scrive e vive, si dibatte, soffre, gioisce, ma intanto vive. Anzi fa di più. Dopo aver esplorato la tragedia, con la sua scrittura ci rimette al mondo più temerari.Massimo Franco firma, quotidianamente, la” nota” del Corriere della Sera. Fa cioè il “punto”, commentandolo, della situazione politica. Al di là dell’importante rubrica, che fissa la sua identità professionale, civica e culturale, scrive editoriali di particolare rilievo e interventi di speciale delicatezza, come quelli recentemente dedicati al Vaticano, da cui ha tratto libri di grande rigore documentale.
Se a ciò si aggiungono sensibilità civile, qualità di scrittura e assenza di qualsivoglia accento ideologico, abbiamo il ritratto di un giornalista tra i più rispettosi di quel canone civile che fa coincidere pensiero e lealtà, dialettica e chiarezza, informazione ed etica. A una precisione accurata, sobria e severa Massimo Franco assegna anche la funzione sociale di un giornalismo oggi variamente insidiato da una accresciuta domanda di corrività, e persino da sudditanze di ordine politico ed economico che inducono a qualcosa di ancor più condiscendente, e non di rado più complice.
E’ insomma protagonista del giornalismo nel quale il Boccaccio - in una particolare sezione del premio – seguita a riconoscersi; e dove Franco osserva una regola morale, all’occorrenza anche tagliente, appresa dal dottor Albert Schweitzer, Premio Nobel per